CAPITOLO 6
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svegliò dopo una notte particolarmente agitata, passata a rigirarsi nel letto.
Non sapeva che ora fosse, ma il sole era già alto. Ne scorgeva la luce
accecante filtrare attraverso le pesanti tende alle finestre.
All’improvviso udì qualcuno bussare alla
sua porta con insistenza. Si tirò su a sedere e gracchiò un invito a entrare.
Si sentiva ancora un po’ intontita dal sonno, ma ben decisa a non darlo a
vedere.
La cameriera, la stessa che il giorno
precedente l’aveva aiutata a fare il bagno e a vestirsi, entrò nella stanza con
un gran rumore di passi. – Signorina dovete alzarvi! – disse, negli occhi
un’ondata di panico. – La contessa è su tutte le furie! Dice che non ha
intenzione di lasciarvi dormire tutto il giorno come una scansafatiche.
Scansafatiche?
Avrebbe voluto vedere lei, al suo posto.
Trovarsi in un altro tempo, in mezzo a gente con abitudini completamente
diverse dalle proprie… e in una casa lugubre come quella, che con ogni probabilità
era infestata dai fantasmi. Non che credesse ai fantasmi. Ma come giustificare
tutti quei rumori che l’avevano tenuta sveglia la notte?
Sbuffò, saltando giù da quel letto che
sembrava un mausoleo. – Arrivo. Giusto il tempo di lavarmi e vestirmi.
La cameriera, che se ben ricordava si
chiamava Gina, la fissò come se avesse appena detto un’eresia. – Volete lavarvi
di nuovo? Ma avete fatto il bagno ieri!
Sara restò con le braccia a mezz’aria,
nell’intento di sfilarsi la camicia da notte. – E allora? In questa casa non si
usa lavarsi ogni giorno?
Non aveva intenzione di trascurare la
propria igiene e ritrovarsi a puzzare come una capra.
Gina andò a recuperare lo stesso fastidioso
abito che le aveva fatto indossare il giorno precedente. – Nossignora! Sarebbe
un vero spreco e una gran fatica per noi poveretti che dobbiamo trascinare
secchi d’acqua calda su per le scale, per riempire la vasca.
Suo malgrado si sentì in colpa. Non aveva
idea che fare una cosa semplice come un bagno caldo comportasse un così duro
lavoro per i servitori. Rimpianse la doccia di casa sua, soffocando un gemito
di frustrazione.
– D’accordo, niente bagno. Mi laverò come
meglio potrò usando la bacinella e l’acqua che è rimasta nella brocca. Questo mi
è consentito?
– Certo, signorina.
– Nel frattempo tu vai ad avvisare
l’arpia… voglio dire la contessa… che scenderò fra poco.
Gina represse un sorrisino e obbedì all’istante.
Era certa che anche lei non avesse in simpatia quella donna arcigna, tutta
vestita di nero, che sembrava un corvo. Sara sospettava che portasse anche
sfiga.
*
* * * * * * * * *
Riuscì
a lavarsi, utilizzando un po’ del bagno schiuma da viaggio che portava nello
zaino. Poi si vestì, indossando sotto l’abito infernale la sua biancheria e cioè un paio di slip con un reggiseno coordinato.
Indubbiamente più comodi di quel bustino che pareva uno strumento di tortura.
Tanto chi le avrebbe mai guardato sotto il vestito?
All’improvviso la mente le rimandò
l’immagine di Giulio, come l’aveva visto la sera prima: gli occhi con le
pupille dilatate solo per averle guardato le caviglie. Le si strinse lo stomaco
e il cuore riprese a battere più veloce al solo ricordo. Se aveva reagito così
per una caviglia nuda, cosa avrebbe fatto se gli avesse permesso di dare una
sbirciatina sotto al vestito?
Ricacciò indietro quel pensiero malvagio.
Non
si fa, Sara. Scordatelo!
Infine indossò l’abito di mussola color
indaco, abbottonando come meglio poteva quel numero infinito di bottoncini. Non
aveva mai riflettuto su quanto l’invenzione della zip fosse stata utile per le
donne del futuro, ma quel giorno ne ebbe la prova. Poi si infilò gli stivali,
scartando le scarpine che le avevano prestato il giorno precedente. Sembravano
quelle di una ballerina classica. Davvero orripilanti! Le mancava il tutù e poi
sarebbe stata perfetta per esibirsi davanti alla contessa madre.
Soffocando una risata, mise il naso fuori
dalla porta. Sbirciò nel corridoio per controllare che non ci fosse Giulio nei
paraggi. Non voleva incontrarlo. Era ancora parecchio imbarazzata per il bacio
che si erano scambiati nel suo studio.
Scese le scale in punta di piedi, cercando
di non fare rumore. Arrivata davanti alla porta della saletta della colazione,
accostò l’orecchio. Le avrebbero servito il pasto anche se era così tardi? Se
lo sarebbe preparata da sola, ma non aveva la più pallida idea di dove fosse la
cucina e quella casa era talmente immensa che avrebbe rischiato di perdersi, se
si fosse messa a vagabondare.
Le parve di udire delle voci concitate
all’interno e aprì lentamente la porta, pregando che non si mettesse a
scricchiolare. Per fortuna non lo fece. Pur sapendo che spiare non era educato,
si mise in ascolto. La voce tonante di Giulio la fece sobbalzare. Pareva in
collera.
– Non ho intenzione di prendere moglie. Quindi
rassegnatevi, madre.
La cosa si faceva interessante. Sara si
sporse un poco per riuscire a vedere. Giulio era seduto a un tavolo rotondo,
con il giornale aperto e negli occhi un’espressione torva. Sua madre era in
piedi davanti a lui e si torceva le mani. – Figliolo, sai bene quanto me che è
tuo dovere sposarti e dare un erede al casato. Finora ti sei divertito come hai
voluto. Sparivi da casa per intere settimane, mesi a volte, e non mi sono mai
intromessa. Ma portare qui quella sgualdrinella è stato decisamente troppo.
Quanto pensi che ci metteranno le voci a diffondersi per la città? Le famiglie benestanti cominceranno a tenere
lontane da te le loro figliole in età da marito. Sarebbe una tragedia!
Lui inarcò un sopracciglio. – Dipende dai
punti di vista. Per me sarebbe una vera fortuna, invece. E comunque Sara non è una sgualdrina.
Ben
detto!
Come osava quella strega? Nemmeno la
conosceva e già si permetteva di giudicarla!
Si protese per riuscire ad ascoltare
meglio. Adesso la contessa aveva tirato fuori il suo fazzolettino di pizzo per
asciugarsi gli occhi.
– Vuoi forse negare che te la porti a
letto? – chiese, in un tono lamentoso che la irritò profondamente.
Giulio la fulminò con lo sguardo. – Certo
che lo nego! Non riesco a crederci, madre. Non è da voi usare un simile
linguaggio.
La contessa ebbe la decenza di arrossire.
– Chiedo scusa, figliolo. È solo che non capisco perché tu ti voglia ostinare a
ospitare qui quella ragazza. Mi ha detto di essere sola al mondo e di non avere
un tutore che si occupi di lei. Probabilmente appartiene a una famiglia caduta
in disgrazia ed è alla ricerca di un buon partito da sposare. Ha un bel visino,
lo ammetto. Ma è al di fuori della tua portata. Tu meriti di meglio.
La risata di Giulio riecheggiò nella sala
da pranzo. – Siete fuori strada, madre. Quella ragazza non ha mire matrimoniali
su di me, ve lo posso assicurare.
– Come puoi esserne certo? Le fanciulle in
età da marito sanno essere molto astute. Solo il fatto di essere riuscita a
farsi ospitare in casa nostra mette tutti noi in una posizione imbarazzante.
Tutti si chiederanno…
Giulio sbatté il giornale sul tavolo. –
Basta! Non mi interessano i pettegolezzi e dichiaro conclusa questa
discussione. Non voglio sentirne parlare più, mi avete capito?
La contessa arretrò di un passo, come se
il figlio l’avesse schiaffeggiata. Beh, se lo sarebbe meritato! Poi, mormorando
una frase di commiato, si diresse verso la porta.
Sara fece giusto in tempo a richiuderla e
ad allontanarsi. Si mise a sedere su una poltroncina nel corridoio, alzando
sulla donna uno sguardo innocente, al suo passaggio. La vide irrigidirsi.
– Desidero parlarvi, Sara. Immediatamente.
Lei sospirò. Addio colazione!
*
* * * * * * * * *
La
contessa madre la fece accomodare nella biblioteca, in un’ala del palazzo che
ancora non aveva visitato. La stanza era enorme, con intere pareti ricolme di
libri. Sara avanzò verso una sedia, i passi attutiti dal magnifico tappeto
persiano che ricopriva il pavimento. Aveva colori sgargianti che passavano dai
toni del rosso vermiglio a quelli più tenui del giallo paglierino. Si sedette,
senza staccare lo sguardo dagli occhi ferini della contessa, augurandosi che
non avesse in serbo per lei l’ennesima ramanzina. Non ne poteva più di quella
donna polemica e impicciona.
– Mi dispiace di essermi svegliata tardi,
stamattina – disse, prevenendo qualsiasi lamentela da parte sua. – Non ho
dormito bene stanotte, ma non accadrà più.
– Lo spero bene. Se volete restare in
questa casa dovrete rendervi utile. Mio figlio è un ingenuo, ma io non mi
lascerò ingannare facilmente.
Sara deglutì. – Cosa intendete dire?
– Intendo dire che ripagherete la nostra
ospitalità con il vostro lavoro.
La contessa si avvicinò a una corda che
pareva penzolare dal soffitto. La tirò e un campanello risuonò nei corridoi. –
La nostra governante vi mostrerà cosa dovete fare. È tutto chiaro?
In realtà nulla le era chiaro, ma annuì
per non contraddirla. Desiderava fare tutto quel che era in suo potere per
evitare discussioni con la padrona di casa e per non essere di peso.
La porta si aprì e una donna bassa e
rotondetta entrò a passo di marcia, protendendosi in un inchino. La contessa
ricambiò il saluto con un rigido cenno del capo e poi tornò a posare lo sguardo
su di lei. – Questa è Sara – disse in tono severo. – È desiderio di mio figlio
che venga accolta in questa casa. Trovatele qualcosa da fare. Qualsiasi cosa.
Sara osservò quella che doveva essere la
governante con aperta curiosità. Vestiva con un abito di cotonina color grigio
topo e portava i capelli, anch’essi grigi, tirati in una rigida crocchia sulla
nuca. Non dava l’impressione di essere una persona cordiale, anzi tutto il
contrario. Le sue pulsazioni accelerarono mentre si sentiva squadrata da cima a
fondo, a sua volta.
– Come desiderate, signora contessa –
rispose la donna, dopo quell’attento esame. Sara si alzò in piedi, asciugandosi
le mani sudate nella gonna dell’abito. Poi la contessa posò un ultimo sguardo
su di lei. – La signora Matilde, la nostra governante, si occuperà di voi.
Eseguirete i suoi ordini alla lettera, avete capito?
Sara annuì di nuovo. – Sì, signora.
La contessa le rivolse un sorriso tirato.
– Bene. Potete andare, ora.
Capì che avrebbe dovuto seguire la signora
Matilde e attese che si avviasse, prima di uscire e richiudere la porta alle
sue spalle. Il suo stomaco brontolò per la fame, ma lo ignorò. Avrebbe mangiato
più tardi. Forse avrebbe scoperto dove si trovava la cucina, dopotutto.
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